Massimo Troisi ed il caffè napoletano

Articolo scritto da Michele Sergio e pubblicato su L’Espresso napoletano del mese di giugno 2019

Timido, introverso, impacciato. Fiero, orgoglioso, volitivo. Dedito al dialetto napoletano. Massimo Troisi, il nostro grande Massimo, icona del giovane meridionale di fine ‘900, tra insicurezze e principi morali, cinismo e generosità. Troisi, con i suoi personaggi, costituisce, probabilmente, la più genuina rappresentazione del napoletano e della nostra stessa città, dei recenti anni passati, quelli di transizione, tra tradizione e cambiamento, eredità culturali centenarie e nuovi linguaggi, rinnovati costumi. Resta per sempre nei nostri cuori a dispetto, nonostante siano trascorsi già 25 anni dalla sua prematura e ingiusta scomparsa. Anni certamente un po’ più tristi senza di lui.

Il caffè, elemento per eccellenza della tradizione napoletana, è costantemente presente nell’opera troisiana, ne è, spesso, il silente caratterista, il perfetto accompagnamento di scena, il discreto sottofondo di dialoghi.

Nella pellicola del 1983, la seconda regalataci da Massimo, Scusate il ritardo, Vincenzo (Troisi) e Tonino (Lello Arena) inscenano le difficoltà relazionali di due ragazzi “normali” con le donne, sempre più emancipate, sicure, padrone del loro presente e desiderose di un futuro da protagoniste, nella vita e nella relazione di coppia. La storia tra Vincenzo e Anna (una splendida Giuliana De Sio), tra alti e bassi, complicità e incomprensioni, sconta proprio l’incapacità del giovane maschio di adeguarsi e fronteggiare la più spiccata maturità personale, affettiva e relazionale dell’omologa femmina. Il tutto tra un caffè e un altro! Come non ricordare un passaggio cult del film, dove Massimo-Vincenzo opera riflessioni socio-psicologiche sul modo di bere caffè, cartina di tornasole della condizione esistenziale dell’individuo. La scena: dopo avere fatto l’amore con Anna, Vincenzo desidera un buon caffè e si reca nella cucina del vicino (un attempato professore, single e spesso assente da casa, per la gioia di Vincenzo che, in possesso delle chiavi dell’appartamento, lo utilizza – con maniacale attenzione, cura e prudenza – per i suoi clandestini incontri amorosi con Anna) dove – tragedia! – rinviene solo una moka da una tazza. Di qui l’osservazione del grande Massimo: la macchinetta più piccola, afferma, “è il massimo della solitudine”: non solo vivi da solo (riferendosi al maturo padrone di casa), ma ti precludi anche la possibilità di ricevere viste, di offrire un caffè ad un eventuale ospite. Bere caffè è estrinsecazione di socialità per il Napoletano, piacere da condividere, azione minima e massima dell’animale sociale (che è il napoletano). Non è possibile, insomma, per Vincenzo, disporre in casa di una sola moka da una tazza, significa avere un problema relazionale, escludere, cioè, la possibilità di ospitare persone, di offrire loro il consueto, cordiale e obbligatorio caffè!

Del 1991 è Pensavo fosse amore invece era un calesse, forse l’opera più completa di Troisi sull’Amore, sentimento analizzato nelle sue varie sfaccettature attraverso minuziosa indagine introspettiva dei protagonisti della pellicola e del loro modo di intendere e vivere i propri tormenti amorosi. Il film è una vera perla impreziosita anche dall’indimenticabile e struggente tema musicale del grande Pino (Daniele), grande amico di Troisi col quale ha, singolarmente, condiviso un maldetto “cuore ballerino” che ne ha, ad entrambi, segnato il percorso dell’esistenza. Ancora il caffè tra i protagonisti della storia in cui Tommaso (Troisi) corre il rischio di passare a migliore vita: la sorella minore del suo migliore amico, innamorata di lui, tenta di ammazzarlo propinandogli cosa? Ma una tazzina di caffè avvelenato, si capisce! Chi vuole avvelenare un napoletano sa che questi almeno un caffè lo berrà nel corso della giornata. Nello stesso film la bella Francesca Neri, nei panni di Cecilia, in abito da sposa raggiunge Tommaso al bar dopo che questi ha disertato l’altare e, su invito di Troisi che le chiede cosa voglia prendere, risponde decisa: “un caffè”.

Per ogni napoletano qualsiasi momento è opportuno per sorbire un espresso, anche quelli più dolorosi. Sarà che il gusto forte e intenso del nostro espresso aiuta a superare le amarezze della vita? Ci piace pensare che Massimo la pensasse in questa maniera e che ci stia guardando tutti, atteggiando uno dei suoi proverbiali sorrisi – un po’ triste, un po’ sbeffeggiante – nel mentre si gusta la sua tazzina di caffè!

I commenti sono chiusi.