Il caffè turco contro il caffè napoletano
Articolo scritto da Michele Sergio e pubblicato su il Roma il giorno 08 dicembre 2019
In questi ultimi giorni si sta parlando molto della candidatura a Patrimonio Unesco del rito del caffè napoletano – ergo: inserire il nostro caffè nella lista dei beni del patrimonio immateriale per una protezione internazionale – sull’esempio del caffè turco che, nel 2013, è riuscito a meritare l’importante riconoscimento. La Regione Campania, professori di diverse Università e la comunità (caffetterie, torrefazioni ed operatori del settore), dopo un lungo ed approfondito lavoro di studio e progettazione, sono riuscite a realizzare una valida candidatura da presentare a Parigi, convincente sotto il profilo sostanziale e ineccepibile sotto quello formale. È interessante quindi mettere a confronto questi due antichi modi di preparare il caffè.
II caffè turco o turk kahvesi inizia a diffondersi verso la metà del XVI secolo a Costantinopoli quando aprono le prime botteghe del caffè ed ancora oggi in Turchia (e nei Balcani) permane la maniera di preparazione ad infuso del caffè, considerata come la bevanda nazionale.
Napoli, invece, diventa città del caffè a partire dagli inizi del ‘800 quando si afferma la Cuccumella, detta la caffettiera “Napoletana” (perché inventata proprio a Napoli dal francese Morize nel 1819), tanto cara al grande Eduardo De Filippo che, oltre a rappresentare una rivoluzione sotto il profilo tecnologico, è fondamentale per la nascita del “caffè moderno” in quanto il filtro contenuto all’interno della caffettiera non rilascia più la polvere di caffè all’interno della tazzina, così superando l’antico sistema turco.
Passiamo, ora, ad analizzare, sotto un profilo tecnico, le due bevande. Il caffè turco si realizza mettendo un pentolino di rame o di ottone che è dotato di un lungo manico sulla sabbia rovente. Quando l’acqua ivi contenuta raggiunge la temperatura di circa 60° si versa la polvere di caffè all’interno e si lascia ad infusione fino a quando la temperatura non supera i 90° ed inizia a bollire e crea una schiuma che fuoriesce dell’ibrik. Solo abili esperti sono capaci di cogliere l’attimo giusto per versare il caffè nella tazzina senza perdere e sprecare la preziosa bevanda.
Originariamente in rame, poi sostituita dall’alluminio, l’utilizzo della Cuccumella, cambia completamente il modo di preparare la bevanda. La polvere di caffè, macinata in grana più grossa, non è più bollita nell’acqua che, invece, portata ad ebollizione nella caldaia, capovolgendo la macchina, passa per caduta attraverso il filtro contenente il caffè e quindi nel raccoglitore.
Per utilizzare il cezve (altro nome dell’ibrik) abbiamo bisogno di una miscela arabica, tostatura chiara e macinatura finissima, quasi impalpabile; per il caffè nostrano occorre la miscela napoletana (arabica e robusta), tostatura più scura e macinatura grossa.
Al di là della storia, degli attrezzi e delle tecniche di preparazione, ciò che più sorprende delle due bevande è la loro capacità di unire, d’essere elemento aggregante, costituire catalizzatore sociale.
Così come nel mondo turco dove è attorno alla preparazione del nero infuso che si sviluppa la socialità, nel Sud Italia bere un caffè è momento d’aggregazione umana, in casa – con la moka che, con il tempo, ha poi sostituito la cuccuma) e per strada (dove nei bar c’è l’usanza di bere il classico espresso). I tempi di attesa e i rituali legati al bere caffè (prima di bere il turco si deve aspettare qualche minuto perché la polvere si depositi sul fondo della tazzina; prima di gustare l’espresso napoletano al bar si rispetta una serie di passaggi: bere il bicchiere d’acqua, girare sempre il caffè, stare attenti alla tazzina calda) costituiscono i profili più interessanti sotto un profilo antropologico e sociale. Più che le differenze per le due bevande rilevano, dunque, i tratti comuni, i piccoli riti, le attese, momenti di condivisione sociale che rendono il bere un caffè magica ed emozionante esperienza.
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