Medici e Caffè
Sono settimane difficili quelle che stiamo vivendo in Italia. Le più difficili dai tempi della seconda guerra mondiale. Mai abbiamo dovuto affrontare un’emergenza sanitaria ed epidemiologica come quella in corso; mai tanti contagiati e decessi causa un’infezione virale. Ogni grave emergenza ha i suoi eroi, persone “normali” che si distinguono per impegno e valore, che mettono se stessi ed il loro lavoro a disposizione del prossimo, sacrificandosi per il bene della collettività. La triste vicenda coronavirus ha fatto salire sugli scudi i medici, gli infermieri e tutti gli operatori sanitari che, anteponendo passione e spirito di servizio alla loro stessa salute, sono ormai settimane che perseguono coraggiosamente nella dura battaglia contro il morbo. Interessante, oltre che doveroso, dare anche qui spazio ai nostri angeli in camice bianco, perché giunga loro l’affetto, il calore e la riconoscenza di noialtri che, ristretti in casa, gli abbiamo demandato l’arduo compito di combattere al fronte, si al fronte, perché, purtroppo, in guerra siamo. Abbiamo, allora, voluto intervistare un medico, una giovane dottoressa di origini napoletane, in prima linea in Lombardia contro il Covid19, anche per comprendere, in tono con il presente spazio, qual è il rapporto tra un medico fortemente impegnato ed il caffè.
- D) Dottoressa Luisa Di Mare buongiorno e grazie per avere accettato l’intervista. Ci vuole raccontare qualcosa della Sua vita privata e di come è iniziato il suo amore per questa professione, i suoi inizi?
- R) Sono nata a Napoli anche se per esigenze familiari la mia giovinezza l’ho trascorsa in Calabria in un piccolo paese in provincia di Cosenza. Compiuti 18 anni mi sono trasferita a Roma per frequentare la facoltà di Medicina e Chirurgia presso l’Università la “Sapienza”. Mi sono laureata con il massimo dei voti a 24 anni. Ho intrapreso la specializzazione in Diagnostica per immagini, sempre a Roma, presso l’Ospedale Umberto I. Completato il ciclo di studi di cinque anni, ho lavorato come libero professionista a Roma in differenti cliniche e studi privati fino a quando ho superato il concorso pubblico per dirigente medico e radiodiagnostica presso l’Asst Bergamo Est; qui lavoro qui dal gennaio 2017. Ho scelto di diventare medico non solo per ispirazione familiare – mia madre Teresa è ostetrica – ma anche perché mi sembrava un mezzo per “rendermi utile” nel sociale.
- D) Che significa fare il medico al tempo del coronavirus?
- R) È stato qualcosa di imprevisto. All’inizio di febbraio 2020 c’è stata un po’ di confusione perché non eravamo preparati ad affrontare un’emergenza di tali proporzioni: non solo da 100 anni non si assisteva ad una simile pandemia ma si è anche affrontato un virus per alcuni versi sconosciuto. Alcuni pazienti accettati nel reparto di Radiologia in regime ambulatoriale e di pronto soccorso sono stati inconsapevolmente fonte di contagio in quanto positivi asintomatici o paucisintomatici. Non venivano adottati particolari procedure di protezione. Ovviamente gli eventi ci hanno travolti e nel breve tempo ci siamo organizzati al meglio ricorrendo ai ripari con adeguati provvedimenti per la nostra tutela e la cura adeguata dei pazienti. Ora ci troviamo nella fase acuta della pandemia è la struttura per la quale lavoro è stata completamente riadattata per perdere in carico pazienti Covid. Non mi sarei mai aspettata nulla del genere. Come medico sono sconvolta, ho vissuto momenti di sconforto e di grandissimo dolore e senso di “impotenza” per il gran numero di decessi. Oggi finalmente si inizia a vedere uno spiraglio di speranza e siamo tutti fiduciosi nella soluzione del problema.
- D) Come si svilupperà l’epidemia? Cosa stiamo imparando?
- R) Sicuramente l’isolamento è una buona strategia di contenimento del contagio insieme alla identificazione del maggior numero di positivi possibile. Ovviamente ci vorrà tempo per tornare alla normalità; probabilmente tra maggio e giugno. Alla fine di tutto ognuno di noi cambierà la sua scala delle priorità. Non si rimanderà più nulla: abbiamo davanti agli occhi la caducità della vita. Questo periodo di isolamento forse ci ha aiutato a ricordare che la cosa più importante è la cura dei rapporti umani.
- D) Quanto è importante il caffè per un medico? Cos’è per lei il caffè? Ha qualche ricordo, qualche aneddoto, legato al caffè?
- R) Mi sovviene il primo caffè che ho bevuto nella mia vita. È stato con mio padre, avevo circa 10 anni e mi era venuto a prendere al conservatorio. Mi disse “facciamo una cosa bella ma non lo diciamo a mamma”. Mi portò in un bar e ordinammo due macchiati. Fu un momento emozionante, mi sono sentita “grande”. Ricordo ancora il caffè che bevvi: era un lungo macchiato freddo. In seguito il caffè è stato il mio compagno di studio, il naturale aiuto per tenermi attiva e meglio affrontare i libri. Il caffè è, inoltre, sempre stato (e lo è ancora) il mio preferito momento di svago. A casa ovviamente preparavo il caffè con la moka mentre, durante gli anni della specializzazione era motivo di fugace ritrovo al bar centrale con i colleghi … certo non era buono come quello della mia città! A Bergamo il caffè non è proprio buonissimo e, ahimè, al nostro ospedale non abbiamo un bar ma solo il distributore automatico. Nonostante ciò, quando il lavoro ce lo consente, una pausa caffè tra colleghi è sempre gradita.
- D) Cosa sta facendo adesso? Ha progetti per il futuro?
- R) Adesso sto a casa perché sono stata a mia volta contagiata e sto in isolamento. Sto bene e mi sto curando. Spesso ed in particolare in questo momento, il caffè lo prepara il mio compagno Carmelo, anche lui medico. Lui mi prepara un ottimo caffè siciliano: è un mezzo per sentirsi uniti “a più di un metro di distanza”. Quando l’epidemia sarà passata spero di coronare il nostro sogno d’amore e mettere su famiglia. Il caffè, però, da buona napoletana lo preparerò io la mattina per mio marito ed i miei figli.
I commenti sono chiusi.