Come l’espresso ha cambiato usi e costumi degli italiani

Come l’espresso ha cambiato usi e costumi degli italiani
I primi caffè in Italia
Quando aprirono le prime botteghe di caffè in Italia tra il XVII e XVIII secolo il caffè era preparato con il metodo ad infusione (alla turca per intenderci) e bevuto principalmente da aristocratici e borghesia. Erano posti esclusivi questi, dove gli avventori potevano gustare pietanze e bevande deliziose ed introvabili altrove.
Nell’800 questi luoghi da botteghe divennero eleganti e raffinate caffetterie. Posti alla portata di tutti ma luoghi ideali anche per cospirare contro i governi per carbonari e patrioti. Il motivo di questo cambiamento fu dovuto al miglioramento del gusto del caffè che veniva servito senza residui riscontrando il gradimento di un pubblico più vasto che prima non lo consumava per via della polvere ivi contenuta. Ciò fu possibile grazie al filtro contenuto in una nuova caffettiera, la napoletana, detta anche cuccuma, inventata a Napoli dall’ingegnere e stagnino francese di nome Jean-Louis Morize, che la brevettò come “caffettiera a doppio filtro senza evaporazione”.
La nascita della macchina per caffè espresso
La cuccuma regnò indisturbata nella penisola fino all’avvento della macchina per caffè espresso nata dall’idea dell’ingegnere torinese Angelo Moriondo (brevetto del 1884) che utilizzava l’acqua calda in pressione per estrarre rapidamente il caffè. All’alba del Novecento Luigi Bezzera perfezionò il sistema e, nel 1905, Desiderio Pavoni mise in commercio la prima macchina da bar prodotta in serie: La Pavoni “Ideale”, una macchina a vapore dalla caratteristica forma a campana sormontata appunto da un pavone. La novità fu dirompente. L’estrazione si riduceva a pochi secondi, in netta contrapposizione alla lenta cuccumella.
Con le nuove macchine nacque anche un nuovo modo di bere: “espresso”, cioè preparato al momento e rapidamente, come il treno veloce a cui si ispira il nome. E prende forma la figura moderna del barista. Nella prima metà del ’900 i bar erano meno diffusi di oggi e l’espresso non era ancora un’abitudine nazionale. In molte zone d’Italia il caffè si consumava poco o per nulla, mentre le roccaforti erano le città portuali o manifatturiere come Trieste, Milano, Venezia, Napoli e Torino. Le macchine a pressione richiedevano perizia: servivano brevetti, regolazioni attente e manutenzione costante. Non mancavano incidenti nelle prime generazioni di apparecchi.
L’influenza dell’espresso nel dopo-guerra
La vera rivoluzione sensoriale arrivò nel secondo dopoguerra. Nel 1938 Achille Gaggia depositò un brevetto che porterà, nel 1947-48, alle macchine a leva ad alta pressione. Adesso l’espresso aveva la “crema”. Erano gli anni della ricostruzione. L’Italia ripartiva e il bar diventò il salotto pubblico dove tornare alla normalità. Qui si socializzava, si giocava al Totocalcio, si guardava la televisione (ancora un lusso per pochi), si consumano alcolici e prodotti di caffetteria. Purtroppo, il lavoro minorile era una realtà diffusa: molti ragazzi imparano il mestiere dietro al bancone contribuendo al reddito familiare. Frequentare il bar era anche un segno di agiatezza in un Paese ancora segnato dalla povertà.
Tra anni ’60 e ’90 l’espresso si democratizza e si standardizza: i bar, spesso a conduzione familiare, sono ovunque. Si fuma dentro, il servizio è rapido, il prezzo calmierato. La presenza femminile dietro e davanti al bancone cresce gradualmente. Nel frattempo l’industria del caffè migliora la qualità delle miscele, scompaiono le piccole torrefazioni artigianali e si diffonde l’espresso al banco come rito quotidiano a Napoli.
L’espresso nel nuovo millennio
Dal 2000 in poi cambia lo scenario: arrivano le catene di caffetterie, le capsule domestiche e l’automazione. Nel 2003 il divieto di fumo nei locali rivoluziona l’esperienza sensoriale, rendendo più leggibili i profumi in tazza. Prende piede la “specialty coffee culture”. Monorigini, profili di tostatura più chiari, latte art, attenzione all’acqua, alla macinatura istantanea e alla sostenibilità. L’espresso esce dal solo perimetro del bar: lo si beve in autostrada, centri commerciali, stazioni e aeroporti; lo servono brand internazionali, grandi industrie e piccole torrefazioni artigianali.
Oggi l’espresso italiano ha varcato i confini ed è bevuto in tutto il mondo. Anche dove la cultura del caffè era marginale: Stati Uniti, Regno Unito, Giappone, Cina, India. La tazzina resta un simbolo di identità e socialità; i baristi sono tecnici del gusto, curano estrazione, temperatura, freschezza della macinatura, tracciabilità dei chicchi. Tra memoria e innovazione, l’espresso continua a essere il gesto rapido che unisce il Paese. Pochi secondi al bancone, un piccolo rito che racconta oltre un secolo di tecnologia, cultura e convivialità.
Michele Sergio
Articolo pubblicato su Il Roma il 02 dicembre 2025
Immagine creata con l’I.A.




