Come si beveva il caffè a Napoli nel secolo scorso
Articolo scritto da Michele Sergio e pubblicato su Il Roma il 10 marzo 2019
Il novecento è stato per il caffè napoletano un secolo senza dubbio interessante, ricco di storie e novità. È stato inconsapevolmente il più importante catalizzatore sociale per le famiglie napoletane perché attorno, prima alla cuccumella (la caffetteria napoletana) e, poi, alla moka, le famiglie partenopee si riunivano per parlare, discutere e condividere gioie e dolori. Insomma è nel secolo scorso che questi comportamenti del popolo partenopeo, legati alla tazzina, interessantissimi sotto il profilo antropologico e sociale, hanno creato un vero e proprio rito conosciuto e apprezzato non solo in Italia ma in tutto il mondo.
Lungo l’asse di via Toledo e soprattutto nei quartieri spagnoli esistevano tantissime piccole torrefazioni (nei bassi) dove veniva acquistato prevalentemente il caffè in quanto le grandi aziende erano ancora poco diffuse.
Il caffè qui prodotto era di alta qualità: infatti sia la casalinga ma anche il gestore del bar poteva non solo personalizzare la miscela (poteva scegliere tra varie qualità e varie specie di chicchi provenienti da vari paesi) ma poteva anche decidere il tempo e la temperatura di tostatura dei chicchi. Era molto suggestivo entrare in questi piccoli laboratori, condotti a carattere familiare, riempiti fin all’inverosimile di sacchi di juta contenenti, appunto, i chicchi di caffè crudo, macchine tostatrici e macinini vari. Tante persone anziane ricordano con nostalgia l’odore del caffè che si diffondeva in questi vicoli.
Nei bar e nelle caffetterie si diffuse l’abitudine di bere il caffè espresso. Complice il clima mite – che spingeva i clienti non a trascorrere il tempo nelle caffetterie ma piuttosto a bere velocemente un caffè ristretto per stare più tempo possibile all’aperto – l’espresso napoletano divenne un vero e proprio culto bevuto più volte al giorno. Gli addetti del settore proposero con successo, quindi, un caffè dal gusto forte e deciso (con una certa aliquota di specie robusta all’interno della miscela e una cottura dei chicchi a temperature più alte e per più tempo che danno un sapore più amaro e un gusto più ricco al nero infuso) e con una percentuale doppia di caffeina che dava più carica a chi lo beveva conquistando così tutti, napoletani e non.
Non dimentichiamo la figura del venditore ambulante di caffè che girava di notte per le strade ed i vicoli di Napoli con tanto di campanella per richiamare i possibili clienti che nelle serate d’inverno solevano “correggere” il caffè con una punta d’anice per riscaldarsi: di qui il nome del famoso “Scarfariello”.
Nelle latterie di sovente i clienti chiedevano di aggiungere al latte un po’ di caffè per dare un gusto più ricco alle colazioni napoletane che consistevano appunto nel pane bagnato nel latte.
Anche nelle case, come già detto, il caffè era la bevanda immancabile ed era di solito la madre deputata alla realizzazione del nero infuso di mattina – che serviva anche come “sveglia” per marito e figli – dopo pranzo, il pomeriggio per gli ospiti ed anche la sera per chi ancora prima di dormire desiderava una tazzulella e cafè. Calzante è la scena della famosissima opera teatrale di Eduardo De Filippo “Natale in casa Cupiello” dove Concetta sveglia il marito con una tazzina di caffè (che poi si rileverà pessima) mentre al figlio porta la proverbiale ‘zuppa ‘e latte.
Con l’avvento nel nuovo millennio cambiano le abitudine e sempre con maggiore prepotenza si stanno affermando anche nelle case dei napoletani le macchinette per caffè in capsule e cialde. Spiace si stia un po’ perdendo il momento magico della preparazione della macchinetta di caffè, con lo spargersi per l’intera casa del suo aroma, invito per ogni familiare a destarsi e condividere tutti insieme la tavola della colazione.
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